Albania a burocrazia zero: un’impresa si apre in un giorno

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    Ecco il segreto dello sviluppo: flat tax al 15% e basso costo della manodopera. Si sono già trasferiti 20mila italiani e 400 aziende

    Se l’Albania parla italiano non è solo dovuto al fatto che oltre metà della popolazione conosce la nostra lingua, ma è anche perché sono sempre più numerosi gli italiani che vengono qui a vivere e a lavorare.

    D’altronde, quello con l’Albania è un rapporto storico, che neppure l’occupazione militare ha incrinato. Non solo i rapporti tra i due Paesi sono eccellenti, ma anche i ricordi del passato sono positivi. Qui le città parlano italiano. Basta camminare per il centro di Tirana, lungo il boulevard che taglia in due la città, e si scoprono le opere dei nostri architetti, sbarcati qui già negli Anni Venti. In Piazza Madre Teresa, già piazza Littorio, lo stile italiano impera, sembra di essere all’Eur. Ma l’opera dei nostri architetti non si è fermata a quegli anni. Proprio in questi giorni, per esempio, l’architetto Marco Petreschi, ordinario alla Sapienza, ha completato il restauro e l’ampliamento della Banca centrale albanese nella centralissima piazza Scanderberg.

    Ma che cosa spinge migliaia di italiani a trasferirsi in Albania? Per le imprese la risposta è semplice. «Possiamo riassumerla in cinque punti – spiega il nostro ambasciatore Massimo Gaiani -: il costo della manodopera, la tassazione (una flat tax del 15%), la vicinanza all’Italia, la lingua e i costi di trasporto verso il nostro Paese». Senza dimenticare la burocrazia snella. In Albania puoi aprire un’attività in una giornata. Un miraggio se paragonato ai tempi e ai costi italiani. È un Paese in espansione, dove la richiesta di personale qualificato è ancora alta. Ma non ci sono solo imprese italiane, la disoccupazione e la crisi hanno spinto anche cuochi, impiegati, medici a trasferirsi qui. «In Albania vivono e lavorano quasi 20mila italiani», afferma il ministro del Lavoro Erion Veliaj. Oltre 15mila hanno un contratto di lavoro dipendente e il permesso di soggiorno. Certo, molti di questi sono pendolari, soprattutto imprenditori e tecnici. Ma fa un certo effetto pensare che una volta erano gli albanesi a fare la fila nelle questure per rinnovare i permessi, mentre oggi sono gli italiani.

    D’altro canto è un Paese con una crescita ininterrotta e che consuma. Un dato fa impressione. Sotto il regime comunista e isolazionista di Henver Hoxha era vietata la proprietà privata e di auto ne circolavano 100-150, tutte a uso della nomenclatura di regime. Nel 1984 erano 400, a metà degli anni ’90 circa 15mila. Oggi in Albania circolano oltre mezzo milione di vetture su una popolazione di 2,8 milioni di abitanti, metà dei quali vivono a Tirana.

    Quest’anno, nonostante la crisi, il Pil ha continuato a salire, segnando un più 2,5%. E il tenore di vita è più che triplicato in solo 13 anni: gli stipendi medi sono passati dai 107 euro del 2000 ai 375 del 2013. In Albania, inoltre, non mancano le materie prime: cromo, rame, petrolio. Senza contare che grazie all’idroelettrico copre oltre l’80% del fabbisogno energetico interno. Insomma, un Paese che, seppur piccolo, ha potenzialità enormi. Ma non è tutto rose e fiori. «Per anni gli albanesi non hanno pagato le bollette dell’energia elettrica – racconta l’ambasciatore Gaiani -. Questo ha creato uno squilibrio finanziario e un debito di circa 800 milioni di euro». Il governo è corso ai ripari ma il buco rimane e a farne le spese è chi produce energia, anche aziende italiane, perché lo Stato non salda le forniture da dieci mesi.

    Ma l’Albania è un Paese giovane, anzi giovanissimo: l’età media è di 29 anni. Per questo è dinamico e in continuo sviluppo. Anche l’interscambio con l’Italia continua ad aumentare. «Parliamo di oltre 2 miliardi di euro che rappresentano circa il 40% degli scambi dell’Albania – dice l’ambasciatore italiano -. Siamo il primo partner commerciale. Pensi che il secondo posto se lo contendono Grecia e Turchia, appena sopra il 7%».

    Per quanto forte, la nostra presenza si limita però a medie e piccole imprese nel settore tessile, meccanico e conserviero: ci sono circa 400 aziende italiane, più due grandi banche, Intesa-San Paolo (terza del Paese) e Veneto Banca, e alcuni gruppi medio grandi nel settore cemento, agroalimentare ed energia, come Italcementi, Colacem, Coca Cola (controllata al 72% da italiani), Conad, Gruppo Sol e Gruppo Pir. «Qui è appetibile innanzitutto il costo del lavoro. Il costo medio di un operaio è di 250 euro al mese ed è manodopera di buona qualità. E non ci sono sindacati», sottolinea l’ambasciatore Gaiani. «Alcuni produttori stanno lasciando l’Oriente per trasferirsi qua anche perché la vicinanza all’Italia ha un peso fondamentale. Negli ultimi anni, poi, sono state realizzate molte infrastrutture: per andare da Tirana a Valona si impiegavano sei ore, adesso solo due», afferma Gaiani.

    L’Albania oggi è candidata a entrare nell’Unione europea. Ma la strada delle riforme è ancora lunga anche se i progressi sono stati notevoli, non solo in modernizzazione ma anche con iniziative contro la corruzione, una piaga che segna ancora questo paese, l’abusivismo edilizio (il governo ha fatto radere al suolo decine di costruzioni nelle località balneari del sud) e la riduzione dei comuni da 300 a 60. Esiste ancora, però, una struttura sociale dove la famiglia è centrale, il vincolo parentale sacro. C’è un rapporto viscerale con i famigliari, quindi è impensabile per un albanese che ricopra un ruolo importante non assumere un parente. Ma non si ferma qui. C’è anche una legge tradizionale, un codice detto kanun che si tramanda per via orale. «Su di esso poggia l’organizzazione della tribù, retta dal consiglio degli anziani, depositari della giustizia, le cui sentenze vengono emanate in luoghi sacri. Nulla è più pittoresco di questa alta corte di vecchiardi, cui il kanun conferisce il ruolo di regolatori della vita e del costume…», scriveva Indro Montanelli, nel 1939, nel suo libro-reportage “Albania una e mille”. Il kanun è diritto penale e civile assieme e si basa anche sulla vendetta del sangue per punire un assassinio o per lavare un oltraggio. Sono passati oltre 70 anni e il kanun resiste ancora, nonostante gli sforzi di modernizzazione. Come è capitato di recente a un’impresa italiana che doveva costruire una centrale idroelettrica. «Durante una prospezione, un anziano del villaggio ha piantato un bastone nel fiume dicendo “è mio”- racconta l’amministratore -. Non c’è stato più nulla da discutere».

    Certo, non è l’America alle porte di casa: l’Albania resta un Paese pieno di contraddizioni, ma forse è proprio questo a renderla interessante.

    Riccardo Pelliccetti ilgiornale.it

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